RUTO IN KENYA SI AFFIDA ALL’EMIGRAZIONE DEI TALENTI PER RISOLVERE I PROBLEMI INTERNI

Se in Italia il lavoro dei giovani talenti trasferitisi all’estero è frequentemente stigmatizzato con il termine “fuga dei cervelli”, in Kenya il presidente William Ruto guarda all’emigrazione dei lavoratori qualificati quale uno degli strumenti cui affidarsi per risolvere alcune delle criticità interne: a partire dalla forte disoccupazione giovanile (anche quella in buona parte qualificata) e all’esigenza di acquisire valute pregiate per ripagare l’indebitamento statale contratto dai suoi predecessori.

Fortemente criticato dalle opposizioni, William Ruto ha senz’altro il pregio di cercare di consolidare le basi di crescita della sua nazione, non più affidandosi al supporto, più o meno disinteressato, delle potenze straniere, ma attraverso riforme fiscali e di modernizzazione del paese. 

Come sappiamo, sulle riforme fiscali, ree di avere troppo concentrato le entrate sugli strumenti di pagamento digitale, così penalizzando la Generazione Z, il presidente è stato costretto a fare un passo indietro. 

Ruto, però, non sembra essere uomo che manchi di energie e di capacità di ideazione. La nuova frontiera sembra essere quella di agevolare l’emigrazione del personale specializzato che fatica a trovare un lavoro in patria, con il duplice obiettivo di risolvere, almeno in parte, la disoccupazione e, al contempo, di godere delle rimesse che gli emigrati invieranno a sostegno delle famiglie rimaste in Kenya.

È di recente divulgazione  la notizia che numerosi insegnanti keniani andranno a lavorare negli Stati Uniti d’America, sulla base di un’iniziativa governativa keniana che sta realizzando accordi bilaterali con altri stati. Nel mese di luglio, il governo ha infatti annunciato un primo blocco di insegnanti, circa 70, che si sono trasferiti negli Stati Uniti.

Sul punto, occorre osservare che il Kenya può contare su alcuni elementi di forza.

La popolazione ha una buona conoscenza della lingua inglese, essendo l’inglese una delle lingue ufficiali, e le scuole utilizzano metodi educativi propri della migliore tradizione britannica che tanto ha affascinato i giovani italiani, almeno finché la Brexit non ha posto seri ostacoli per la scelta dei percorsi universitari nel Regno Unito.

Da qui un forte appeal dei professionisti keniani, in una vasta scelta che va dagli infermieri ai medici e che ora si estende agli educatori.

L’iniziativa governativa si propone di giungere a un obiettivo di circa 5.000 lavoratori a settimana, tra qualificati e non, che si rechino all’estero. 

In realtà, almeno in parte l’iniziativa non è del tutto nuova, visto che già nel 2021 il Kenya ha sottoscritto un accordo bilaterale con il Regno Unito relativo ai permessi di soggiorno triennali per personale infermieristico e sanitario che voglia recarsi a lavorare nel paese anglosassone. Un altro accordo similare è stato posto in essere con l’Arabia Saudita.

Altri accordi risultano essere stati raggiunti con Germania, Serbia, Russia e Israele in vari settori a partire dall’agricoltura.

Il programma di emigrazione non riguarda infatti soltanto i lavoratori qualificati, ma anche quelli che non richiedono particolari professionalità, quali gli addetti alle pulizie, spesso assunti in paesi arabi che non brillano per la tutela dei diritti (al riguardo, basta scorrere la stampa keniana, ma anche The Guardian, per leggere di episodi di abusi e di quasi schiavitù cui sono assoggettate le donne keniane assunte quali domestiche in Arabia Saudita).

Come anticipato, l’iniziativa governativa ha come obiettivo 5.000 lavoratori a settimana, ma non risulta che sia stato determinato un limite massimo aggregato. 

In un anno, se gli obiettivi fossero raggiunti, circa 800.000 keniani in più   lavorerebbero all’estero, attraverso schemi che limitano l’emigrazione clandestina, assicurando tutela ai propri connazionali attraverso gli accordi bilaterali con i singoli stati. 

Per avere un’idea dell’impatto, si noti che Il Kenya conta una popolazione di circa 55 milioni di persone, con una moderata emigrazione (nel quinquennio 2016-2020 i kenioti emigrati risultano essere stati circa 500.000, mentre - in totale - i kenioti all’estero dovrebbero essere circa 3 milioni, la maggior parte dei quali rimasti comunque nel continente africano).

Per quanto concerne le rimesse sulle quali lo stato potrebbe contare, non è facile fare stime, considerando che probabilmente i lavoratori più qualificati tenderanno a spendere una percentuale più elevata dei soldi per avere adeguati tenori di vita negli stati in cui andranno a lavorare.

Un’idea comunque può darcela il report della Banca Mondiale relativo alle rimesse dall’estero ricevute dagli stati dell’Africa subsahariana nel 2023: circa 54 miliardi di dollari USA, di cui 4,2 al Kenya, che appare terzo beneficiario dopo la Nigeria (che è tra gli stati a maggiore emigrazione) e il Ghana. È da notare che 54 miliardi di dollari USA sono circa una volta e mezza gli investimenti diretti esteri registrati nello stesso anno nella medesima regione subsahariana.

Per il Kenya si tratta di circa il 4% del prodotto interno lordo.

Sono numeri sui quali ragionare, anche per considerare l’emigrazione regolare (o immigrazione, a seconda dei punti di vista) quale uno degli strumenti di sviluppo che ben risponde agli interessi sia del paese da cui gli emigrati partono ma anche a quelli del paese che li riceve, come i vari accordi summenzionati stanno a dimostrare.

2024-08-20T10:03:08Z dg43tfdfdgfd