E SE LA CINA ANDASSE IN CRISI?

Si è appena chiuso il FOCAC, il Forum per la Cooperazione Cina-Africa, e Pechino subito rilancia, con un vertice sulla sicurezza globale. Il 10 settembre 2024, si è tenuta a Lianyungang, nella provincia cinese di Jiangsu, la conferenza ministeriale Cina-Asia Centrale sulla sicurezza pubblica e gli affari interni.

Durante l’incontro, il Ministro della Pubblica Sicurezza cinese, Wang Xiaohong, ha ribadito l’importanza di rafforzare la cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine transnazionale. Ha proposto la creazione di una piattaforma collaborativa per migliorare la protezione dei progetti legati alla Belt and Road Initiative e promuovere la fiducia strategica tra i paesi della regione. Pechino ha, inoltre, annunciato che, per rafforzare ulteriormente la sicurezza nelle regioni partner, formerà 3.000 ufficiali delle forze dell’ordine straniere nel corso del prossimo anno. L’iniziativa si inserisce nella più ampia Global Security Initiative (GSI), lanciata nel 2022 dal presidente Xi Jinping, con l’obiettivo di promuovere una governance globale della sicurezza più equa e inclusiva. La Cina invierà anche consulenti di polizia, offrendo supporto tecnico e operativo ai Paesi dell’area. Alla conferenza hanno partecipato alti funzionari delle cinque principali nazioni dell'Asia Centrale, che hanno firmato accordi di cooperazione per migliorare le operazioni congiunte contro il terrorismo e il crimine transnazionale. Secondo fonti cinesi, negli ultimi due anni, il GSI avrebbe ottenuto sostegno e consensi da oltre 100 paesi e organizzazioni regionali e internazionali, è comprensibile che cresca la preoccupazione, in Occidente, per l’espansione cinese, ma il vero problema potrebbe essere non tanto la Cina che avanza, quanto la Cina che declina.

La Cina ha cessato da tempo di essere la locomotiva del mondo: questo è ormai noto. L’obiettivo del “sorpasso” sul PIL degli USA è stato clamorosamente mancato. Il disastro demografico (ci sono intere città che si vanno spopolando), la depressione giovanile, la crisi immobiliare e l’irrequietezza della società civile (emersa soprattutto in relazione ad alcuni clamorosi fallimenti nella politica di contrasto al COVID-19) stanno da tempo interagendo tra loro.

Secondo l’Economist, la situazione, nell’ex Celeste Impero, si sta facendo talmente seria che il governo sta sempre più limitando l’accesso a informazioni economiche critiche, con un'espansione delle censure online (e tutto questo, aggiungiamo, mentre sul sito del FOCAC si annuncia che «i giornalisti africani puntano a stringere legami più stretti con i media cinesi»). Un articolo del settimanale londinese, che criticava la mancanza di misure per stimolare l'economia, è stato rimosso, dimostrando quanto il Partito Comunista cinese controlli le discussioni economiche. La manipolazione dei dati ufficiali, come quelli sul tasso di disoccupazione giovanile e la crescita del PIL, rende difficile valutare la reale situazione economica. Questa opacità danneggia la fiducia degli investitori, e i report interni, spesso più incisivi, non sempre raggiungono i vertici del potere, dove le decisioni politiche sono influenzate da considerazioni ideologiche.

Ci sarebbe, dunque, da chiedersi che cosa accadrebbe se Pechino fallisse nel creare e governare una nuova architettura globale, vista la sua egemonia in aree-chiave del pianeta e l’attuale assenza di un’alternativa europea o americana.

Qualche assaggio di quel che potrebbe succedere lo vediamo in Africa, dove la Cina conta ormai su una presenza solida e ramificata. Il FOCAC è stato lanciato nel 2000, come piattaforma cruciale per rafforzare i legami economici e politici tra la Cina e i paesi africani. La Cina ha un approccio “olistico” all’egemonia geopolitica: in Africa si occupa strutture e infrastrutture, fisiche e digitali, di formazione, di energia, di sicurezza e di ambiente. Ma, in particolare si erge a protettrice dei Paesi africani, ex colonie dell’Occidente, che avrebbero, secondo la versione cinese, finalmente trovato un partner e una guida disinteressato, generoso e capace. Eppure, questo paese-leader del Terzo Mondo, all’ultima sessione del FOCAC, tenutasi A Pechino dal 5 al 7 settembre scorsi, si è rifiutato di venire incontro a una pressante e diffusa richiesta dei paesi africani: ridurre il debito nei confronti della stessa Cina. La Cina ha, poi, promesso 50,7 miliardi di dollari in prestiti e investimenti per i prossimi tre anni. Sebbene l'importo sia superiore a quello del 2021, rimane al di sotto dei 60 miliardi annunciati in precedenti vertici (2015 e 2018).

Il debito crescente dei Paesi africani verso la Cina è uno dei principali ostacoli alla sostenibilità della strategia cinese. Attualmente, il debito complessivo verso Pechino è stimato a circa 143 miliardi di dollari, rappresentando il 12% del debito estero totale dell'Africa. In alcuni Paesi come Angola e Repubblica del Congo, oltre un terzo dei pagamenti del debito è destinato ai creditori cinesi.

Questa crescente dipendenza economica ha creato vulnerabilità per molti Paesi africani, esposti a crisi economiche e fluttuazioni dei mercati globali. Ad esempio, il Kenya utilizza due terzi del suo budget annuale per pagare gli interessi del debito.

Non è solo una questione economica, ma anche politica e, in qualche modo, ideologica. Il modello cinese di cooperazione in Africa, basato sulla non interferenza e sul pragmatismo, ha avuto successo nel breve termine. Tuttavia, sta rivelando i suoi limiti. Molti progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina soffrono di ritardi o costi superiori alle previsioni. L'assenza di trasparenza nei contratti, unita alla concentrazione degli investimenti in settori strategici come infrastrutture e risorse naturali, ha portato a tensioni sociali e conflitti interni in vari Paesi africani.

Inoltre, il sostegno cinese a governi autoritari ha alimentato il malcontento in alcune nazioni ed etnie, portando alla luce problemi di governance, che potrebbero ostacolare la capacità di Pechino di mantenere relazioni stabili e proficue con i suoi partner africani. In Camerun, ad esempio, la distribuzione diseguale dei fondi tra le varie comunità ha contribuito a esacerbare i conflitti etnici, con solo l'8% dei progetti destinati alla minoranza anglofona.

Persino la sicurezza ne risente. Aumentano gli attacchi alle postazioni cinesi e Pechino appare spesso in difficoltà nel gestire i rapporti con l’universo etnico-culturale africano, adottando un rigido approccio inter-governativo.

Certamente, la Cina gode di un crescente prestigio tra i leader e i giovani africani, ma sta crescendo il gap tra le aspettative degli africani e le risposte della Cina. La popolazione africana, che ha superato 1,2 miliardi di persone con una età media di 19 anni, è destinata a crescere ulteriormente, mettendo sotto pressione i mercati del lavoro e aggravando le spinte migratorie. È urgente interrogarsi cosa potrebbe accadere se questo gap, superata una certa soglia, determinasse nel medio-termine un cedimento strutturale nel sistema sino-africano, con conseguenze catastrofiche anche per l’Europa, ovviamente. Per farsi un’idea, si pensi agli effetti della “Primavera araba” (per molti aspetti, ricostruibile anch’essa come l’effetto di un gap tra aspettative e risultati politici).

Insomma, è una storia che conosciamo, e che riguarda tutte le grandi strutture sovranazionali centralizzate, o con ambizioni centripete, dall’Impero romano all’Unione sovietica, passando per l’Impero ottomano: più si espandono, più si indeboliscono, tanto all’interno che all’esterno. Nel caso della Cina c’è un altro elemento da considerare: la difficoltà di gestire il crescente gap tra sviluppo della tecnica, che ha un andamento esponenziale, e sviluppo della politica, che ha un andamento lineare. La gestione di questo gap richiede flessibilità, apertura alla ricerca e fiducia nei ricercatori, accountability, discrezione ed efficienza negli apparati amministrativi, pluralismo culturale e politico, stato di diritto e una certa dose di accettazione dei possibili rischi sociali legati alle libertà civili e alle contaminazioni culturali.

Pensare di servirsi della “tecnoscienza”, per usare un termine caro ad Emanuele Severino, ignorandone la natura profondamente ribelle e la tendenza dominatrice, cercare di piegarla a fini autoritari o addirittura totalitari, ha provocato in passato disastri e fallimenti, come stanno lì a dimostrare la storia del fascismo, del nazismo, del comunismo e di diversi autoritarismi islamici. Questi disastri e fallimenti hanno avuto ripercussioni pesanti, e talora tragiche, sul continente europeo. Evitarli forse non è possibile. Ma, almeno, prepariamoci a gestirli.

Per l’Europa, la prospettata crisi cinese potrebbe rappresentare un’opportunità storica, oltre che una chiamata a una più coraggiosa responsabilizzazione politica planetaria (il rapporto Draghi può essere letto, a nostro avviso, anche in questa chiave: o un balzo politico in avanti, o la morte dell’Europa). In particolare, le relazioni tra Europa e Africa, segnate in passato dal colonialismo e dal post-colonialismo, potrebbero assumere, o forse stanno già assumendo, un nuovo significato nell'era contemporanea, spingendo verso una maggiore interdipendenza economica, politica e culturale.

L'Europa ha molte carte da giocare in Africa: il welfare state, le politiche ambientali, l'inclusione sociale, e, soprattutto, lo Stato di diritto, la trasparenza e la democrazia. Forse dovremmo imparare qualcosa dalla Cina. Pechino ha saputo costruire una narrativa solida e coesa che accompagna le sue strategie economiche e politiche in Africa, utilizzando ampie campagne culturali e promuovendo la sua visione del mondo attraverso i media e le istituzioni educative. L'Europa, senza rinunciare al pluralismo culturale, ha i mezzi per lavorare anche su questo fronte. Con la sua storia di democrazia e rispetto dei diritti umani, potrebbe rafforzare la sua influenza promuovendo i suoi valori attraverso campagne culturali mirate, il sostegno all'istruzione e lo scambio accademico. Questi strumenti non solo migliorerebbero la percezione dell'Europa in Africa, ma offrirebbero un'alternativa valida al modello cinese, che manca di trasparenza e democrazia.

Il soft power funziona quando si crede in sé stessi. A furia di parlare di crisi della democrazia e dell’Occidente, abbiamo finito per crederci ciecamente. Forse sarebbe ora di cominciare a occuparsi dei rischi legati alle possibili derive entropiche dei regimi autoritari, legate alla loro difficoltà di gestire, senza entrare in contraddizione con se stessi, l’evoluzione della tecnica, al contrario delle democrazie liberali, le cui radici filosofiche e spirituali si intrecciano con quelle della tecnica.

Il soft power ha successo quando c'è fiducia in sé stessi. A forza di parlare della crisi della democrazia e dell’Occidente, siamo arrivati a crederci ciecamente. Forse è il momento di considerare anche i rischi che i regimi autoritari affrontano, specialmente quelli legati alla gestione dell’evoluzione della tecnica, che può esporli a derive entropiche. Questi regimi, infatti, faticano a conciliare l'innovazione tecnologica con la propria natura centralizzata e statica. Al contrario, le democrazie liberali, grazie alle loro radici filosofiche e spirituali, riescono a integrare meglio la tecnica nel loro sviluppo, mantenendo una certa coerenza interna. L’”imperfezione” è la loro forza.

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