DATA CENTER IN ITALIA: OPPORTUNITà DI CRESCITA NEL CONTESTO DI MERCATI IN FRENATA

Una torta da 15 miliardi. Questa la posta in gioco sui data center in Italia. Alla quale guardano sia i colossi d’oltreoceano (Google, Amazon e Microsoft su tutti, ma anche Equinix o Vantage Data Center), sia i player europei, in particolare Data 4 (si veda l’articolo in basso) o anche Aruba, determinati a far valere le migliori condizioni in termini di sovranità digitale: la capacità di controllare i propri dati e la propria tecnologia.

È su questo punto che si sta concentrando lo scontro competitivo con le leggi Usa, a partire dal Cloud Act, che permettono ampi poteri di accesso ai dati e la risposta di investitori portati a puntare di più al made in Europe. Lo scontro di mercato sta così prendendo quota e promette di assumere ancora maggior rilievo con una domanda in aumento di cloud e data center spinta dal combinato disposto di una fame crescente di dati, alimentata dall’avanzata dell’intelligenza artificiale generativa, dalla saturazione dei mercati tradizionali dell’area Flap (Francoforte; Londra; Amsterdam; Parigi) e da un’area di Milano che sta assumendo una sempre maggiore centralità con la sua posizione strategica e la presenza di una rete di telecomunicazioni avanzata (il cavo Sparkle da Genova a Mumbai, che da settembre completerà l’ultima tratta, avrà proprio nel capoluogo lombardo il suo target finale).

«L’Italia è strategicamente importante per lo sviluppo del Mediterraneo, insieme a Spagna e Sud della Francia. Dal Medio Oriente all’Europa ci sono più di 20 sistemi di cavi sottomarini che attraversano il Mediterraneo e lo stesso discorso vale per l’Africa. Questo rende la creazione di hub in Italia di grande interesse per la comunità finanziaria e industriale», spiega Alessandro Talotta, Executive President & Chairman del Mix, l’Internet Exchange provider di riferimento per il mercato italiano. Il nostro Paese oggi rappresenta il crocevia tra il centro Europa ed il Mediterraneo, motivo di attrazione per molti data center.

La spinta alla realizzazione dei data center dunque c’è. In Italia come in tutta Europa. Solo qualche settimana fa, gli analisti di Morgan Stanley hanno alzato le loro indicazioni di crescita dei data center europei. La previsione è di una crescita del settore di sei volte fino a 38 gigawatt entro il 2035, rispetto alle cinque volte previste in precedenza.

Ecco che, in questo quadro, appare quantomai incisivo il report dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano, «Data Center Economy: l’Italia a un punto di svolta». I numeri, del resto, lasciano poco spazio a interpretazioni: 23 organizzazioni (di cui otto società nuove entranti sul mercato italiano) hanno annunciato l’apertura di 83 nuove infrastrutture nel periodo 2023-2025, con potenziali investimenti fino a 15 miliardi di euro.

Cifre importanti, dentro le quali è soprattutto nell’area di Milano che la partita promette di avere sviluppi. Con Milano e la Lombardia in pole per diventare anche emblema di un più complesso match giocato fra Usa ed Europa, in particolare la Francia, che da questo punto di vista si sta muovendo con determinazione dentro e fuori i suoi confini nazionali.

I numeri dell’Osservatorio del Politecnico di Milano sono anche richiamati nell’introduzione della proposta di legge delega 1928, presentata alla Camera dalla deputata di Azione Giulia Pastorella, con altri firmatari dello stesso partito. «È necessario quanto prima – si legge – non solo provvedere all’inquadramento normativo dei Data Center che ad oggi non risultano riconosciuti a livello regolatorio, essendo identificati come un generico edificio industriale, ma anche definire le procedure approvative per la costruzione di nuove infrastrutture».

Chi deve avere quindi il pallino? Le Regioni, i Comuni o altri? La necessità, evidente, è quella di uniformare le procedure di costruzione su tutto il territorio creando le condizioni per poterne facilitare lo sviluppo. «È stato calcolato – spiega al Sole 24 Ore Valerio Romano, consigliere di Anitec-Assinform con delega alla Twin Transition – che un data center di ultima generazione richiede un investimento superiore al miliardo, per il quale ce ne sono fra i 2 e i 3 aggiuntivi per l’indotto. Parliamo di un’occasione straordinaria, tanto più ora con la saturazione della regione “Flap” in Nord Europa». In questo quadro, però, uno dei problemi da affrontare, aggiunge Romano, «è quello della disomogeneità territoriale. Milano rischia a sua volta la saturazione delle risorse necessarie. Per avere uno sviluppo degno di questo nome occorre che partecipino tutti i territori, da Nord a Sud».

Un punto sul quale si sta concentrando l’attenzione è quello della sostenibilità, con gli allarmi sul consumo energetico. «Il tema c’è, non va sottovalutato – replica Sherif Rizkalla, presidente di Ida, associazione italiana dei costruttori e operatori di data center –. Ma occorre tenere bene in considerazione lo sviluppo possibile proprio grazie ai data center e alla loro evoluzione. È stata ad esempio calcolata una riduzione fino al 70% degli sprechi con i nuovi data center rispetto a quella media di 1 a 1, quindi un megawatt sprecato per ogni megawatt prodotto, finora esistente. L’efficienza energetica dei nuovi data center è molto superiore alle infrastrutture legacy. Anche per questo occorre facilitarne lo sviluppo eliminando problematiche di tipo burocratico e di mancate semplificazioni che pesano».

Tutto torna così al punto di partenza: la necessità di avere un inquadramento chiaro e univoco. «Il legislatore nazionale – sottolinea l’avvocato Stefano Morri, Founding Partner dello Studio legale e tributario Morri Rossetti – non ha ancora dettato una norma che vada a regolamentare questi “nuovi”sviluppi imprenditoriali, che in realtà sono presenti sul territorio nazionale già da vent’anni, lasciando che alla loro disciplina vi si possa giungere tramite una lettura incrociata di differenti norme: testo unico dell’Ambiente, testo unico sull’edilizia, regolamenti comunali, interpretazioni ministeriali». E così restano questioni che rischiano di inceppare il meccanismo. Un esempio? «I gruppi elettrogeni presenti all’interno dei data center – spiega Andrea Grappelli, Partner dello Studio – sono classificati dalla prassi ministeriale come “impianti termici per la produzione di energia elettrica, vapore e acqua calda”. Tale classificazione non tiene in considerazione il fatto che nei data center l’energia prodotta dai gruppi elettrogeni si presenta come semplice fattore di produzione in fase di emergenza e non come core business. Situazioni come queste rischiano di impattare fin troppo e frenare lo sviluppo».

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