«IL DEBITO PUBBLICO USA? POCO SOSTENIBILE, IN 10 ANNI SALIRà A 50.000 MILIARDI»

Domani la Federal Reserve si riunisce per decidere sul primo taglio dei tassi di interesse negli USA. Dottor Davide Serra, fondatore e ceo di Algebris Investments, quali sono le vostre aspettative? E soprattutto: cosa farà la Fed nei mesi successivi?

Il meeting di settembre è una close call, ma a questo punto è ragionevole attendersi un taglio di 50 punti base. I dati di agosto sul mercato del lavoro si sono dimostrati in netto calo (seppur non in territorio recessivo per ora), e l’inflazione sotto controllo. La banca centrale risponderà ponendo più enfasi sui primi, e un taglio più importante attenua i rischi di finire behind the curve, com’era successo durante i rialzi del 2021-22. Da luglio ormai la priorità della Fed si è spostata da inflazione a crescita e Powell vuole farsi trovare pronto. Pensiamo sia ragionevole aspettarsi un ciclo proattivo, con quattro tagli di qui a fine anno e altrettanti nella prima metà del 2025.

 Il debito pubblico americano è cresciuto a ritmi esponenziali negli ultimi anni fino agli attuali 30 trilioni di dollari. E seguendo la traiettoria indicata dalle vostre analisi, nel prossimo decennio se ne potrebbe aggiungere un ammontare superiore a quello dei precedenti 200 anni di storia degli Stati Uniti. È un livello sostenibile?

A noi pare poco sostenibile. Al ritmo corrente, il debito/PIL americano salirà di circa venti punti nei prossimi dieci anni e ancora di più se dovesse esserci una recessione nel frattempo. E non sono proiezioni solo nostre, lo dice il Congressional Budget Office. Qualsiasi altro Paese vedrebbe un’esplosione dei propri interessi sul debito a fronte di un aumento del genere. Il mercato è ancora disposto a dare credito all’eccezionalismo americano, per cui valuta e debito rimangono sostenuti dagli acquisti nonostante una leva finanziaria sempre più alta. Ma non escludiamo un momento della verità nei prossimi anni.

 I libri di macroeconomia insegnano che il debito pubblico va valutato in rapporto al Pil. Ma considerando il livello dei tassi e la spesa per gli interessi, esiste anche una soglia oltre la quale il debito va considerato rischioso in valore assoluto? Gli Usa si stanno avvicinando a questo livello?

In un certo senso sì. Al momento il debito americano è circa 30,000 miliardi di dollari. Un numero grande circa come l’economia USA, ma che può ancora essere assorbito dai grandi compratori internazionali. In dieci anni sarà circa 60% in più, 50,000 miliardi. Con il passare del tempo e l’aumentare della dimensione, la presenza di grandi compratori globali sarà sempre più importante.

 Considerato l’enorme fabbisogno di rifinanziamento annuale e mensile del debito Usa, ritiene che in prospettiva il tema possa diventare terreno di sfida geopolitica con i Paesi non occidentali? 

Sicuramente sì. Negli ultimi vent’anni, nessuna moneta se non il dollaro ha saputo proporsi come “valuta di riserva globale”. Per questa ragione le tanto temute grandi vendite di debito americano da parte di Cina o Giappone non si sono mai materializzate. Qualcosa però, si sta muovendo. La Russia è stata costretta ad adottare un sistema basato sullo yuan, e altri Paesi asiatici stanno facendo esperimenti in questo senso. Le autorità cinesi sono sempre più attente alla stabilità della moneta, e il Giappone sta ricominciando ad alzare i tassi di interesse dopo vent’anni di repressione finanziaria.

Il sovraindebitamento Usa come e quanto può influire sul valore del dollaro sui mercati finanziari internazionali?

Tramite una corsa alle vendite di treasury americani. Il dollaro e i titoli di stato USA fanno ancora la parte del leone nelle riserve delle banche centrali globali, ma come notato sopra si sta sviluppando una tendenza alla diversificazione. Nel tempo, il sistema finanziario globale sta diventando meno dollaro-centrico. Fra una, due o tre crisi del “debt ceiling” la sponsorship globale dei treasury potrebbe venire meno.

 In vista delle elezioni presidenziali di novembre, i programmi economici di Donald Trump che di Kamala Harris, almeno per quello che si sa finora, non prevedono una riduzione del debito pubblico. È preoccupante?

Pensiamo di sì. Dopo il Covid, la politica americana si è abituata all’assenza di vincoli di bilancio. Nel 2023, il deficit USA è stato 7% del PIL, nonostante crescita al 3% e disoccupazione sotto il 4%. In altre parole, si è speso molto anche se non ce n’era bisogno. Le piattaforme dei due candidati riflettono questa tendenza: Harris più dal lato della spesa, Trump più dal lato delle tasse. Tutti vogliono spendere e stimolare l’economia, nessuno guarda ai conti pubblici. Come sappiamo bene in Europa, può essere un campanello d’allarme.

2024-09-17T08:24:55Z dg43tfdfdgfd